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Società di comodo: sfortuna e inettitudine sono valide cause di disapplicazione

L’articolo 30 della Legge 724/1994 stabilisce che una società si considera non operativa, rientrando così nel perimetro limitante della disciplina prevista per le società cosiddette di comodo, nel momento in cui questa non riesce a superare il test di operatività previsto in sede di dichiarazione annuale dei redditi.

Il test di operatività non è altro che una elaborazione dei valori di bilancio, in base alla quale una società, per essere considerata operativa, deve aver conseguito un livello minimo di ricavi o proventi, il cui ammontare è stabilito in base all’applicazione di determinati coefficienti alle consistenze patrimoniali.

La disciplina delle società di comodo nasce come norma antielusiva, al fine di evitare che il veicolo societario possa essere utilizzato per finalità estranee a quelle dell’impresa.

Ovviamente, dato che i coefficienti da applicare sono uguali per tutti, mentre le specifiche situazioni imprenditoriali sono ognuna diversa dall’altra, il Legislatore ha considerato l’ipotesi che il test di operatività possa non rappresentare coerentemente la realtà di tutte le imprese, e per questo ha previsto la possibilità di disapplicarne la disciplina, in modo automatico o meno, a seconda delle situazioni.

Infatti il comma 4-bis dell’articolo 30 della Legge 724/1994 prevede espressamente la possibilità di esclude l’applicazione della disciplina inpresenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito”.

La precedente versione della norma richiedeva che queste situazioni avessero carattere straordinario, ma, dato che oggi il punto è ormai superato, si ci dovrà concentrare semplicemente sull’effettiva capacità delle situazioni in esame di rendere davvero impossibile il conseguimento dei ricavi o dei proventi.

Della questione si occupa l’ordinanza della Corte di Cassazione numero 23384 del 24 agosto 2021 nella quale si puntualizza che “la nozione di impossibilità va […] intesa in senso elastico, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell'imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell'attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standards minimi legali”.

Entrando più nello specifico dell’ordinanza, questa analizza la capacità di due specifiche situazioni di rispondere alle esigenze della normativa:

  • il “concentrarsi di eventi sfortunati”;
  • la “inettitudine produttiva” dell’imprenditore.

La Corte stabilisce che “entrambe le cause individuate sono idonee a costituire oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di risultati […] conformi agli standards minimi previsti dall'articolo 30”.

La motivazione è che una concentrazione di eventi sfortunati rappresenta un insieme di situazioni, estranee alla volontà dell’imprenditore, capaci di condizionare i risultati dell’impresa. 

Mentre il “deficit di capacità” dell’imprenditore costituisce una dinamica capace di impedire il raggiungimento di determinati risultati, che non dimostra, però, affatto, la mancanza di volontà a conseguirli.

Dimostrando una certa dinamicità di vedute, la Corte di Cassazione inserisce quindi la sfortuna e l’inettitudine dell’imprenditore tra le motivazioni che possono dimostrare l’impossibilità dell’impresa a conseguire i ricavi minimi previsti dal test di operatività, senza possibilità di “sottoporre […] a sindacato, sia pure ai fini della sottrazione alla disciplina antielusiva, le scelte imprenditoriali”.